I bleed in six colors
Acquistai il mio primo calcolatore Apple nel 1980. A quel tempo, noi pochi appassionati d’informatica conoscevamo benissimo la figura di Jobs, ma il nostro idolo era il suo socio Wozniak, il geniale ingegnere che progettò per lui il primo personal computer moderno. Solo nel 1984, quando Jobs guidò passo passo il progetto di creazione del Mac, ci si rese conto per la prima volta della straordinaria visione di Steve Jobs. In quella occasione l ruolo di “Woz” risultò chiaramente modesto — si limitò a creare il lettore di dischetti — mentre Jobs seguì da dirigente ogni più minuta fase dello sviluppo. Volle che gli ingegneri addetti allo sviluppo fossero non più di cento, per poterli conoscere e riconoscere uno per uno; portava loro spremute fresche d’arancia, ma era (e rimase sempre) un critico ferocissimo di ogni risultato men che eccellente. Il team con una colletta gli acquistò un timbro con la dicitura this is bullshit, “questa è una str…”, per aiutarlo a respingere la maggioranza delle idee.
Noi utilizzatori di computer con una mela morsicata sulla carrozzeria avemmo per lui un rapporto di odio e amore. Quando eravamo una risicatissima minoranza, quando le grandi aziende ignoravano sistematicamente l’offerta Apple e noi dovevamo lottare per avere sulla scrivania il calcolatore che trovavamo più facile, più potente, più produttivo, ogni rovescio di fortuna della casa di Jobs era un colpo. A quei tempi il logo di Apple era dipinto nei colori dell’iride e nacque tra noi il modo di dire I bleed in six colors, cioè “se mi feriscono, il mio sangue esce in sei colori”.
Jobs ci dava anche gran dispiaceri. Era il primo a puntare sulle tecnologie più rivoluzionarie, ma anche il primo ad abbandonarle: volle interrompere la produzione della serie Apple II mentre milioni di persone ne chiedevano ancora, bloccò lo sviluppo del primo palmare della storia (Apple Newton), sottrasse tutti gli ingegneri migliori che lavoravano su Mac per accelerare lo sviluppo di iPhone. Proprio in questo stava il fulcro del suo genio: negli anni Novanta, Sony lanciava sul mercato sino a venti nuovi prodotti al giorno, mentre la Apple di Jobs ne volle mettere a listino solo quattro in tutto, rinnovati annualmente: due portatili e due macchine da scrivania, di cui uno per tipo a basso costo per uso casalingo e gli altri professionali. Nel 2005, ospite d’onore alla cerimonia di laurea dell’Università di Stanford, disse ai diplomandi: «Negli ultimi 33 anni mi sono guardato nello specchio tutte le mattine e mi sono chiesto “se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare ciò che sto per fare?” E se la risposta era negativa per qualche giorno di fila sapevo di dover cambiare qualcosa. Sapere che sarei morto è stata per me la cosa più importante […] perché quasi tutte le distrazioni, gli imbarazzi, l’orgoglio, la paura di sbagliare si dissolvono di fronte alla prospettiva della morte, lasciando solo le cose davvero importanti».
La feroce concentrazione su poche tematiche forse è stata anche la sua rovina personale: l’impressione è che abbia preso sottogamba, e inizialmente curato poco e maldestramente, la malattia che alla fine ha avuto ragione di lui.
Steve Jobs seppe circondarsi di collaboratori degni di lui, scelti individualmente con la stessa cura maniacale con cui sceglieva le tecnologie. La speranza è che costoro sappiano seguire la strada che il loro mentore ha tracciato, per moltissimi anni, non solo a vantaggio di chi usa prodotti Apple, ma anche di chi sceglie la concorrenza, perennemente spronata a dare il meglio di sé. Magari anche portando avanti idee e prodotti diversi da quelli che Jobs avrebbe voluto. Ancora dal discorso di Stanford: «Il vostro tempo è limitato, non sprecatelo vivendo la vita che qualcun altro ha progettato per voi, non fatevi intrappolare dai dogmi, non lasciate che il frastuono delle opinioni altrui anneghi la vostra voce interiore, il vostro cuore, le vostre intuizioni.»
Acquistai il mio primo calcolatore Apple nel 1980. A quel tempo, noi pochi appassionati d’informatica conoscevamo benissimo la figura di Jobs, ma il nostro idolo era il suo socio Wozniak, il geniale ingegnere che progettò per lui il primo personal computer moderno. Solo nel 1984, quando Jobs guidò passo passo il progetto di creazione del Mac, ci si rese conto per la prima volta della straordinaria visione di Steve Jobs. In quella occasione l ruolo di “Woz” risultò chiaramente modesto — si limitò a creare il lettore di dischetti — mentre Jobs seguì da dirigente ogni più minuta fase dello sviluppo. Volle che gli ingegneri addetti allo sviluppo fossero non più di cento, per poterli conoscere e riconoscere uno per uno; portava loro spremute fresche d’arancia, ma era (e rimase sempre) un critico ferocissimo di ogni risultato men che eccellente. Il team con una colletta gli acquistò un timbro con la dicitura this is bullshit, “questa è una str…”, per aiutarlo a respingere la maggioranza delle idee.
Noi fan della mela morsicata avemmo per lui un rapporto di odio e amore. Quando eravamo una risicatissima minoranza, quando le grandi aziende ignoravano sistematicamente l’offerta Apple e noi dovevamo lottare per avere sulla scrivania il calcolatore che trovavamo più facile, più potente, più produttivo, ogni rovescio di fortuna della casa di Jobs era un colpo. A quei tempi il logo di Apple era dipinto nei colori dell’iride e nacque tra noi il modo di dire I bleed in six colors, cioè “se mi feriscono, il mio sangue esce in sei colori”.
Jobs ci dava anche gran dispiaceri. Era il primo a puntare sulle tecnologie più rivoluzionarie, ma anche il primo ad abbandonarle: volle interrompere la produzione della serie Apple II mentre milioni di persone ne chiedevano ancora, bloccò lo sviluppo del primo palmare della storia (Apple Newton), sottrasse tutti gli ingegneri migliori che lavoravano su Mac per accelerare lo sviluppo di iPhone. Proprio in questo stava il fulcro del suo genio: negli anni Novanta, Sony lanciava sul mercato sino a venti nuovi prodotti al giorno, mentre la Apple di Jobs ne volle mettere a listino solo quattro in tutto, rinnovati annualmente: due portatili e due macchine da scrivania, di cui uno per tipo a basso costo per uso casalingo e gli altri professionali. Nel 2005, ospite d’onore alla cerimonia di laurea dell’Università di Stanford, disse ai diplomandi: «Negli ultimi 33 anni mi sono guardato nello specchio tutte le mattine e mi sono chiesto “se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare ciò che sto per fare?” E se la risposta era negativa per qualche giorno di fila sapevo di dover cambiare qualcosa. Sapere che sarei morto è stata per me la cosa più importante […] perché quasi tutte le distrazioni, gli imbarazzi, l’orgoglio, la paura di sbagliare si dissolvono di fronte alla prospettiva della morte, lasciando solo le cose davvero importanti».
La feroce concentrazione su poche tematiche forse è stata anche la sua rovina personale: l’impressione è che abbia preso sottogamba, e inizialmente curato poco e maldestramente, la malattia che alla fine ha avuto ragione di lui.
Steve Jobs seppe circondarsi di collaboratori degni di lui, scelti individualmente con la stessa cura maniacale con cui sceglieva le tecnologie. La speranza è che costoro sappiano seguire la strada che il loro mentore ha tracciato, per moltissimi anni, non solo a vantaggio di chi usa prodotti Apple, ma anche di chi sceglie la concorrenza, perennemente spronata a dare il meglio di sé. Magari anche portando avanti idee e prodotti diversi da quelli che Jobs avrebbe voluto. Ancora dal discorso di Stanford: «Il vostro tempo è limitato, non sprecatelo vivendo la vita che qualcun altro ha progettato per voi, non fatevi intrappolare dai dogmi, non lasciate che il frastuono delle opinioni altrui anneghi la vostra voce interiore, il vostro cuore, le vostre intuizioni.»