Tim Cook
Timothy D. Cook
Timothy D. Cook, detto Tim, è CEO di Apple dalla fine dell’agosto scorso. Compirà cinquantun anni il primo del mese prossimo. Forse non varrà nel suo caso l’antico detto latino secondo il quale “nomen omen”, ovvero “nel nome c’è il destino”, visto che il nostro nella vita non ha certo fatto il cuoco; eppure è simpatico e curioso notare che il nuovo timoniere dell’azienda leader nel campo della telefonia cellulare sia nato nella contea di Mobile (nello stato dell’Alabama). Dopo una laurea breve in ingegneria, Cook ha maturato un dottorato alla School of Business di una università minore in North Carolina, la Duke, e nella grande industria s’è fatto le ossa lavorando per dodici anni all’IBM. Proprio lì, nel ruolo di responsabile dell’approvvigionamento per il nordamerica, ha maturato quelle competenze che poco dopo gli avrebbero permesso di farsi apprezzare in Apple, azienda a cui si è unito nel marzo 1998.
In quel periodo della sua storia, la casa di Cupertino era piagata dall’incapacità di predire quanti esemplari dei suoi dispositivi sarebbero serviti per riempire il canale di vendita: la componentistica veniva acquistata in modo inefficiente e i magazzini rischiavano di saturarsi di calcolatori poco appetiti dal pubblico mentre altri modelli più popolari non riuscivano a raggiungere i punti vendita. Steve Jobs, da poco tornato al timone di Apple, scelse Cook dopo una lunga ricerca. Il fondatore di Apple pare abbia scartato in quella occasione un alto dirigente di Compaq, dopo soli cinque minuti di torchio, alzandosi e abbandonandolo nella sala riunioni dove lo stava intervistando.
Il nuovo arrivato rivoluzionò immediatamente la gestione aziendale, minimizzando le scorte necessarie (e riducendo la durata media dell’immagazzinamento da trentun giorni a sei). Negli anni successivi traghettò l’azienda verso un modello di produzione just in time, in cui i componenti vengono acquistati “sul venduto”, ovvero sulla base di ordini già ricevuti, e rapidissimamente assemblati per produrre l’apparecchio che viene spedito al cliente. I margini d’utile, di conseguenza, salirono drasticamente. Secondo gli addetti ai lavori il suo colpo da maestro avvenne nel 2008, quando pagò anticipatamente una somma faraonica (1,25 miliardi di dollari) per accaparrarsi il diritto di prelazione sulle memorie a stato solido. Si tratta del componente cruciale che sta al cuore di tutti i moderni calcolatori ultraportatili, cellulari smartphone e dispositivi tablet: la mossa di Cook ha costretto tutti i concorrenti ad accontentarsi di ciò che ad Apple non serve, ritardando l’immissione sul mercato di prodotti simili di mesi od anni.
Steve Jobs apprezzò anche la puntigliosità e la dedizione del nuovo collaboratore: Cook era ed è un workaholic, un lavoratore compulsivo che comincia personalmente a mettersi all’opera alle 4:30 di mattina, consuma i pasti alla scrivania (barrette energetiche), lavora anche il giorno di Natale e indice riunioni telefoniche per la notte di domenica in modo che tutta la sua equipe sia massimamente produttiva il lunedì mattina. Pretende lo stesso attaccamento al lavoro dai collaboratori. Una volta, durante una riunione, chiese a un sottoposto di recarsi immediatamente in Cina a sbrigliare un problema di approvvigionamento, senza neppure passare da casa a recuperare un cambio di biancheria.
Cook oggi
Se Steve Jobs è noto per le sue furiose sfuriate (a Cupertino non si usa la frase “licenziare in tronco” ma il sinonimo “stevizzare”), si dice di Tim Cook che non abbia mai alzato la voce neppure una volta, limitandosi a una espressione corrucciata e a lunghi silenzi che costringono il sottoposto a ritirarsi con la coda tra le gambe.
Cook dunque fece rapidamente strada in azienda. A fine 1998, responsabile delle operazioni produttive nel mondo intero; nel 2000 responsabile delle vendite; dal 2002 vicepresidente; dal 2004 responsabile dell’ingegnerizzazione dei Macintosh e nel medesimo anno per la prima volta CEO ad interim per il breve periodo di due mesi in cui Jobs venne operato per la prima volta del cancro al pancreas le cui conseguenze hanno finito per costringerlo alle dimissioni poche settimane fa — lasciando il timone dell’azienda nelle mani del delfino.
Non si sa moltissimo d’altro del nuovo CEO di Apple: è ben noto che nel (poco) tempo libero pratica molta attività sportiva — jogging, ciclismo, passeggiate in alta montagna e palestra. Forse anche per questo motivo, oltre al suo lavoro in Apple, Cook riveste anche il ruolo di consigliere di amministrazione in Nike. Ha gusti classici nel vestire e nella musica; ed è un liberaldemocratico in politica: nel suo primo ufficio in Apple appese un poster di Bob Dylan e uno di Bob. Kennedy. Si appassiona al football americano ed è un fa della squadra degli Auburn Tigers.
A differenza di Jobs, che non se ne interessa, Tim Cook è noto per il suo interesse nel sociale. Gli venne erroneamente diagnosticata la sclerosi multipla nel 1996 e da allora è attivo nella raccolta fondi per la ricerca nel campo. Una delle sue prime decisioni da timoniere in apple è stato un programma di “raddoppio delle donazioni”: oggi quando un dipendente di Cupertino elargisce quattrini a una associazione benefica, Apple aggiunge altrettanti soldi dai propri fondi.
Anche se il nuovo CEO di Apple si è sempre dimostrato schivo, riservato e attento alla propria privacy, la comunità gay in Apple e nella Silicon Valley ne parla come di un proprio membro, e lui non ha mai smentito, neppure cinque anni fa quando la rivista “di settore” Out l’ha nominato al primo posto nella lista degli omosessuali più influenti d’America. Nel medesimo ramo d’attività e con le medesime inclinazioni vanno menzionate anche la responsabile delle risorse umane di Microsoft, Lisa Brummel, e la VP del new business in Google, Megan Smith. Ma non c’è da stupirsi se qualcuno ha chiamato Tim Cook “il gay più influente della Silicon Valley”, e la frase gli è rimasta appiccicata.